Negli ultimi dieci anni il settore dell’artigianato in Italia ha vissuto un vero e proprio crollo: quasi 400 mila artigiani in meno, con una riduzione del 22% a livello nazionale. Una crisi strutturale che ha radici profonde: dall’invecchiamento della popolazione artigiana alla mancanza di ricambio generazionale, passando per la concorrenza della grande distribuzione e dell’e-commerce, e che colpisce in modo trasversale città e aree interne. È quanto emerge dal report redatto dall’Ufficio Studi della CGIA di Mestre, che ha elaborato i dati INPS e Infocamere/Movimprese.
Tra il 2023 e il 2024, il Sannio ha perso 169 artigiani, passando da 4.748 a 4.579 unità, con una contrazione del 3,6%. Un calo inferiore alla media nazionale (-5%), ma significativo per un territorio già fragile dal punto di vista economico e demografico.
Sono state 314 le chiusure in Irpinia, pari a un -4,6%. Nel complesso si contano 483 attività artigiane scomparse in un solo anno. Un numero che fotografa con chiarezza la difficoltà delle aree interne, dove le botteghe artigiane non sono soltanto imprese, ma veri presìdi sociali e culturali, capaci di custodire tradizioni, saperi locali e di mantenere vivo il tessuto urbano dei piccoli comuni.
Il report sottolinea come l’invecchiamento progressivo della popolazione artigiana e l’insufficiente ricambio generazionale siano tra i fattori più determinanti del declino. A ciò si aggiungono: concorrenza della grande distribuzione e dell’e-commerce, che hanno ridotto drasticamente lo spazio di mercato per i piccoli laboratori; peso della burocrazia e degli adempimenti fiscali, che scoraggiano soprattutto i giovani dall’intraprendere questo percorso; boom di affitti e tasse locali, che rende insostenibile il mantenimento di una bottega; cambiamento dei consumi, con l’affermazione della cultura dell’“usa e getta”: la calzatura, il vestito o il mobile su misura sono stati soppiantati dal prodotto industriale acquistato online o preso dallo scaffale di un grande magazzino. Una parte della responsabilità, dunque, è imputabile anche ai consumatori, sempre meno orientati verso il valore del prodotto artigianale.
Inoltre – prosegue lo studio -negli ultimi 45 anni, il lavoro manuale ha subito una svalutazione profonda, venendo percepito come “residuale” e destinato al declino. Gli istituti professionali, un tempo decisivi per lo sviluppo economico del Paese, oggi sono spesso visti come scuole di “serie b” o addirittura di “serie c”.
Molti ragazzi, scoraggiati dal pregiudizio culturale, non scelgono percorsi che potrebbero avvicinarli a un mestiere artigiano. Eppure, nonostante la crisi, gli imprenditori del settore segnalano da anni la difficoltà a trovare personale disposto a imparare un mestiere. Per invertire la rotta occorrono investimenti seri nell’orientamento e nel rafforzamento dei percorsi scuola-lavoro.
Non tutti i comparti artigiani sono in difficoltà. Alcuni mostrano dati in controtendenza come il settore alimentare: gelaterie, gastronomie e pizzerie da asporto sono in costante aumento, soprattutto nelle città con vocazione turistica.
Per invertire la rotta – conclude l’associazione – occorre rilanciare l’istruzione professionale, potenziare le politiche di orientamento e valutare misure innovative come il “reddito di gestione delle botteghe”, per sostenere chi mantiene viva un’attività artigiana nei centri fino a 10.000 abitanti. Un intervento, quest’ultimo, che avrebbe anche un valore sociale, ossia contribuire a frenare lo spopolamento e a preservare l’identità culturale dei territori.